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Violenza sulle donne, sei gli omicidi sono solo numeri sui media e sui social

17/10/2016

Secondo i dati Istat del giugno 2015 6 milioni 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale, il 31,5% ha tra i 16 e i 60 anni ed è in aumento la percentuale dei figli che assistono ad atti di violenza. Partiamo da questi numeri per analizzare le dinamiche della rappresentazione del femminicidio e della violenza sulle donne attraverso i media, perché oltre 6 milioni di donne ritraggono uno spaccato decisamente importante della società italiana. A questi numeri così elevati corrispondono famiglie, bambini e bambine che costruiscono la propria identità e il proprio modello relazionale sulla base di un vissuto che è fatto di prevaricazione, incapacità di comunicare, ignoranza sentimentale e che rischiano di dare vita a loro volta a relazioni fragili.

Nelle conclusioni del suo saggio Femdom, Re individua i tratti caratterizzanti il nuovo modello maschile e il nuovo modello femminile:

“Tratti caratterizzanti il nuovo modello maschile: rinuncia alla violenza, apertura emotiva, fedeltà sessuale, sensibilità ed empatia, cura estetica, grande comunicatività. Tratti caratterizzanti il nuovo modello femminile: intraprendenza, infedeltà sessuale, attivismo, intensa vita sociale,intensa partecipazione sociale, indipendenza.”

Ebbene il numero degli omicidi,femminicidi, le violenze ci dimostrano come i nuovi modelli non si siano ancora pienamente realizzati. A fronte di mutamenti che sono già evidenti nella società, osserviamo come esista una frattura tra vecchi e nuovi modelli che si innesta in un contesto caratterizzato dall’insediarsi di nuove dinamiche sulla base delle quali si costruiscono i nostri percorsi identitari, nei quali la rappresentazione del sé appare sempre di più come una rappresentazione pubblica e in chiave mediale.

I nuovi modelli relazionali stanno contribuendo in modo significativo a definire i contorni della società. L’identità di genere, la sessualità e l’uso del corpo sono parte integrante di questo percorso e in particolare proprio corpo e sessualità, assumono una centralità che sembra attribuire loro un rilevanza ben maggiore rispetto alla propria costruzione identitaria.

La dimensione corpo come cita anche Giddens nel suo lavoro, riprendendo le tesi di Foucault, assume una valenza centrale per l’individuo moderno.

“Il corpo, chiaramente, è in certo modo (ancora da determinare) il dominio della sessualità. E, come la sessualità l’io, oggi appare fortemente carico di riflessività. Il corpo è stato sempre adornato, coccolato e talvolta, all’insegna di ideali più elevati, mutilato costretto al digiuno. Come si spiegano tuttavia, le nostre attuali preoccupazioni circa l’aspetto e il controllo del nostro corpo, così nettamente diverse dagli atteggiamenti tradizionali? Foucault ha una risposta che rimette in campo la sessualità. Le società moderne, ci dice, in aperto contrasto con il mondo premoderno, dipendono dalla generazione di biopotere. Questa è nel migliore dei casi una mezza verità. Il corpo diventa, certo, un centro di potere amministrativo, ma, ancor di più, esso diventa un portatore visibile di identità di sé, e viene progressivamente integrato nelle decisioni prese dall’individuo circa il proprio stile di vita.”

Bauman critica la posizione di Giddens ritenendo proprio che la modernizzazione estrema abbia introdotto una sistematica quanto compulsiva necessità di cambiamento e adattamento, che se da una parte è ciò che fa progredire l’individuo moderno, dal suo punto di vista ci porta ad attuare percorsi che sono sempre più incentrati su noi stessi e di cui l’identità sessuale fa parte.

“La costruzione dell’identità ha assunto la forma di un’inarrestabile sperimentazione. Gli esperimenti non finiscono mai. Si prova un’identità alla volta, ma molte altre, ancora non collaudate, aspettano dietro l’angolo di venire raccolte. […]Non si saprà mai per certo se l’identità che si sfoggia al momento sia la migliore che si possa avere e quella che potrebbe dare maggior soddisfazione. L’equipaggiamento sessuale corporeo è solo una di quelle risorse a disposizione che, come tutte le altre risorse, può essere usata per gli scopi più diversi e messa al servizio di un intero assortimento di obbiettivi. La sfida, sembra, è estendere al massimo il potenziale di creazione di piacere di questo «equipaggiamento naturale» sperimentando uno dopo l’altro tutti i diversi generi di «identità sessuale », e magari inventandone qualcun altro lungo la strada.

 

Così il selfie diventa linguaggio, l’immagine veicola espressività, racconta di sé, del luogo, del momento. Un micro racconto con il quale catturare l’attenzione degli altri e che mostra visivamente ciò che vogliamo essere. Riva nella sua ricerca su un campione di 150 intervistati mostra quanto forte sia l’individualismo inteso come bisogno di piacere, di essere apprezzato e di narrarsi.

La dimensione della parola lascia il campo all’immagine che diventa racconto. Un collage di immagini che fissano micro momenti, che uniti creano un ideale racconto di sé per il pubblico che abbiamo definito.

Si tratta nel contempo di un processo di democratizzazione della vita privata che passa attraverso i social e della nostra intimità, nel senso che i social considerati come il nostro giardino sicuro sono il luogo nel quale ci affidiamo al nostro pubblico, con il quale condividiamo ciò che vogliamo essere.

Un processo nel quale si innesta anche la nostra dieta mediatica che ha fatto nel tempo della cronaca nera un format televisivo e che ha assottigliato la linea di demarcazione tra reale e fiction, facendo prevalere l’emotività, il coinvolgimento dello spettatore al racconto dei fatti con l’obiettivo di fornire elementi per una elaborazione razionale. Un sistema informativo che si è trasformato in infotainement.

Questa breve analisi di contesto ci conduce ad un primo quesito: Quale è la rappresentazione sociale del rapporto uomo donna? Perché a donna che subisce violenza corrisponde un uomo che pratica la violenza?

“Cosa succederebbe se collocassimo sulla famosa Isola Deserta delle Utopie (una ritrovata Isola dell’Eden” un Maschio Puro e una Femmina Pura? Se fossimo in grado si condurre un simile esperimento, che riguarda i modelli di comportamento, la cultura, e la relazione con l’aggressività – non tanto la differenza sessuale come fatto fisico – vedremmo emergere due Derive, due Drives completamente diversi: la Femmina tende all’Accomodamento-Stasi, Quiete, Pace – salvo conservare momenti di feroce incontrollabilità lunare da baccante. Il Maschio tende alla Giustificazione – lo Spazio come occupazione, di una metratura, il Dominio, il Conflitto. Drive maschile e Drive femminile si sono inseguiti, intrecciati e sovrapposti per millenni, e la Storia umana è il risultato di questa continua dinamica di incontro e scontro”.

Una dinamica di incontro scontro che oggi ribadiamo è fondamentalmente centrata su un modo di comunicare che mette al centro l’io corporeo, l’ipercorpo, come lo definisce Pasquale Romeo nel Maschio Addio. Una dimensione che sembra includere la soppressione del corpo come parte integrante di una sorta di modello non-relazionale, dove prevale l’incapacità di comunicare, di gestire il fallimento, di comprendere che la relazione non può fondarsi sul possesso dell’altro, del corpo dell’altro.

E se la cronaca nera diventa format televisivo, si apre la strada ad un sorta di assuefazione alla violenza che si riverbera sulla vita di ciascuno. Una violenza che il Prof. Pio Baldelli – fondatore della Cattedra di Comunicazione di Massa – Università di Firenze ha affrontato individuando le categorie della violenza mediatica - indicando alcuni "generi" fondamentali. E precisamente:

  1. Violenza documentata, ovvero soggettiva
  2. La violenza virtuale
  3. La violenza subliminale, ovvero psicologica
  4. La violenza gratuita

Ebbene violenza virtuale e subliminale sembrano prevalere ma in modo ancora più distorsivo rispetto alla descrizione di Baldelli, attraverso la trasformazione della realtà in fiction che rende un fatto che per sua natura avviene in dato momento e in un dato contesto, in una vicenda che si dilata nel tempo e nello spazio per adattarsi al contenitore mediale, per diventare un prodotto da consumo quotidiano.

A questa trasformazione contribuisce la crisi generale del giornalismo che come sostiene Morcellini:”… soprattutto in Italia…è legata all’esaurirsi dell’esperienza sociale. Se i moderni, i giovani e soprattutto alcuni luoghi comuni culturali di licenziamento del passato, non ritengono più la società una meta desiderabile, un elemento di protezione o cura delle persone e dunque una forma di regolazione e fissazione di regole non valicabili significa che la loro esperienza quotidiana sta entrando in crisi, rischiando la spirale dell’individualismo. Per molti versi questa sembra la cornice simbolica del nostro tempo. Il primo elemento incide sulla crisi del giornalismo e dell’informazione è dunque la perdita di valore della società.”

Certo il modo di fare giornalismo ha subito molte mutazioni nel corso del tempo. Alcune, come abbiamo introdotto sopra, connesse agli strumenti attraverso cui si veicola l’informazione, altre derivanti dal cambiamento della società, dal modo in cui si forma l’opinione pubblica. Questi due livelli non sono separati ma interconnessi. Eppure la funzione della notizia non è cambiata: “La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce i fatti nascosti, di metterli in relazione tra loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire.”

Ciò significa avere la consapevolezza della responsabilità, piuttosto che quella del potere di comunicare. Una consapevolezza che è tanto più urgente quando si affronta un tema così complesso come il femminicidio, del quale si fa un gran parlare, ma che sembra ormai avvertito come i grandi casi di cronaca più a livello numerico che di danno alla persona, e che sta creando una spaventosa abitudine nel registrare un fenomeno su cui è necessario lavorare ora dopo ora.

Non basta chiamarlo un amore malato. Siamo parte di una società che non riesce a dare più valore alla vita come un dono e non come un numero in più o in meno di abitanti sul pianeta. Siamo oltre la società liquida di Bauman, che ci ricorda come i rapporti “cessano di essere ambiti di certezza, tranquillità e benessere spirituale, per diventare una fonte prolifica di ansie".


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